sabato 29 febbraio 2020

La storia si ripete


E’ proprio vero, la storia si ripete, tutto torna, ritorna. Erano gli anni 80 del secolo scorso quando, dal lontano Giappone iniziava ad emergere silenziosamente, ma prepotentemente, il fenomeno Hikikomori, persone che, volontariamente, sceglievano di ritirarsi progressivamente dalla vita sociale, interrompendo le relazioni con il mondo esterno. Un meccanismo di difesa il loro, messo in atto dalle più svariare ragioni, multiple e concatenate, ma riconducibile essenzialmente al malessere che le società del benessere, dell’apparenza, dell’opulenza, del superfluo e della felicità ostentata a tutti i costi hanno creato. La pressione di realizzazione sociale e la vergogna narcisistica ci divora, e non tutti siamo in grado di addossarci questo macigno, stare al passo con la freneticità e gli ideali vuoti odierni è solo per superficiali acritici che si omologano a tutti i costi per sentirsi accettati. Non è per sensibili ed empatici, per animi liberi e sognatori. Società difficili da comprendere e a cui è, a volte, quasi impossibile adattarsi. Società economicamente e tecnologicamente emancipate, all’avanguardia, sempre più competitive e perfezioniste e al contempo sempre più umanamente decadenti. Più dell’avanguardia io vorrei sottolineare che stiamo vivendo un inaridimento interiore senza precedenti. Abbiamo perso di vista l’essere umano nelle sue molteplici sfaccettature. L’empatia è stata sostituita dall’apatia, l’amore dall’odio, il bene comune dall’individualismo, l’umiltà dal successo. Ma cosa ci stiamo guadagnando? Solo Aridità, egoismo, solitudine e inquietudine. Società contemporanee del genere presentano l’humus ideale per la presenza e l’incremento del fenomeno di autoreclusione. Siamo destinati a diventare società hikikomoriane. Ognuno sempre più chiuso in sé stesso, nel suo spazio fisico o mentale, che sia una camera da letto o in compagnia ma col cellulare in mano. Siamo soli e siamo smarriti. Dobbiamo risvegliarci da questo intorpidimento mediatico, ridare voce alle nostre sommerse esigenze, per tornare ad essere più sereni, in pace con noi stessi e col nostro bel mondo, che ci ha fornito tutto quello di cui abbiamo bisogno, senza eccessi inutili, pregni di contentezza istantanea. Se il fenomeno Hikikomori, all’inizio, riguardava solo la realtà giapponese, ben presto iniziò a diffondersi in ogni società moderna, diventando un flagello di portata universale. Le similitudini con l’attuale situazione da psicosi infettiva sono evidenti e un paragone, per riflettere, è d’obbligo. L’Hikikomori, come il Corona Virus, colpisce le società in modo trasversale, può riguardare essenzialmente tutti, senza alcuna distinzione di sesso, età, provenienza, livello di istruzione, benessere economico. A differenza di quest’ultimo però, l’hikikomori non è una malattia; può generare in malattia se lo stato di isolamento si protrae per lunghi periodi (sfociando in depressione, disturbi d’ansia), e non è nemmeno una fobia sociale. Entrambe sono condizioni in continua evoluzione, da non ritenersi rigide e statiche, e di cui ancora non si hanno studi approfonditi e dati precisi. Una condizione che nasce, per gli Hikikomori, e si diffonde, per il Corona, dalla paura. La paura che scaturisce dell’ignoranza, dal non sapere, dalla non conoscenza e che viene accentuata dalle solite maniere eccessive e allarmistiche propinate dai media. Un virus, quello del Corona, che arriva da lontano, come l’Hikikomori. quando se ne è iniziato a parlare, in entrambi i casi, eravamo solo degli spettatori passivi, la cosa non ci riguardava poi molto. Quel che stava accadendo avveniva a più di 7000 km di distanza. Potevamo stare tranquilli. E sempre stato e sempre sarà cosi: finché una disgrazia non ci capita personalmente da vicino noi un po' ce ne freghiamo. Si è sempre un po' disinteressati quando non ci tange. Poi da un giorno all’altro ci svegliamo colpiti personalmente. E tutto cambia. Inizia la psicosi collettiva, l’apocalisse moderna. Si scatena tutto l’esagerato allarmismo, la paura incontrollata, l’ipocondria, l’egoismo senza freni, la nostra Italia si paralizza. Toccati da un male lontano, che non avremmo mai pensato ci avrebbe toccati cosi da vicino. Ed eccoci qua, ci si ritrova per alcuni, ad essere un po’ Hikikomori. Alcuni per spontanea iniziativa, altri per obbligo ma insomma la situazione in cui ci si ritrova è la medesima, siamo tutti accomunati da un mal-essere comune. Come ci si sente adesso che tocca a noi? Forse, un po' più comprensivi e alleati. Da una condizione considerata stravagante e incomprensibile a molti, a condizione comune a tanti. L’organizzazione sociale italiana è di tipo individualista per cui il concetto di identità, distinta e autonoma, raramente si accosta al senso di unità e di appartenenza a un gruppo; si attribuisce molta importanza agli interessi personali, al perseguimento della propria affermazione personale. Ma proprio perché adesso siamo in un momento di comune incertezza, smarrimento che dovremmo raccoglierci e perseguire un obiettivo comune: lo stare bene, non solo fisicamente, ma lo stare bene insieme, ritrovare il piacere del fare con, del fare per, ritrovarsi e ritrovarci. Da una situazione del genere dovremmo ricavare insegnamento, dovremmo riscoprire la condivisione, la fratellanza, l’unione. Non sono un medico e non so come potrà evolversi e risolversi la situazione del virus dal punto di vista scientifico, ma da pedagogista ribadisco a gran voce che si “guarisce” anche quando si sta anche bene con sé stessi e con gli altri, si ha una mente sana e forte, si è contornati da affetto e sostegno. Le modalità di approccio, e non parlo di cura, verso gli Hikikomori consistono proprio nel sostegno, nel supporto, nella vicinanza empatica, nell’ascolto attivo e mai giudicante, nel lavoro sinergico e armonico di più persone. Nella pazienza mai esaurita, nella speranza sempre viva, nella delicatezza delle maniere. Pazienza, gentilezza e tempo sono gli ingredienti immancabili in ogni buona azione pedagogica, più complessi di una ricetta medica, immediata e superficiale: presuppongono un delicato intervento in profondità, un tempo indeterminato di attesa e una speranza mai arresa. Tutto nella prospettiva di raggiungere il proprio benessere psicologico, sociale ed emotivo verso una maggiore comprensione di sé. Da eterna positiva, da entusiasta pedagogista, da amante del mondo considero e ho sempre considerato le situazioni di crisi come un’opportunità di riflessione, di valutazione e discernimento, per cambiare sguardo e direzione di pensiero, per rendersi maggiormente introspettivi e consapevoli e poter risolvere, cercando di non ricadere in errore, situazioni che senz’altro si ripresenteranno in un prossimo futuro. Una crisi può così trasformarsi in una rinascita, in un rifiorire prossimo. La storia insegna, l’esperienza dovrebbe renderci più pronti per un’azione pensata. Dovremmo apprendere da ogni situazione e farne tesoro presente e futuro, mantenendo sempre un atteggiamento propositivo e risolutivo E allora coinvolgiamoci integralmente e indistintamente nella realizzazione di possibili società empatiche che abbiano a cuore l’umano.
Giulia Cecconi