Era scritto nel destino, quello della leva calcistica del ’73, di chi aveva paura di sbagliare un calcio di rigore, anche se non è da questo dettaglio che si giudica un giocatore. Nato a targhe alterne e in un regime di crisi energetica a causa della “guerra del Kippur” il prezzo del greggio subì una impennata al rialzo e si dice terminò il tempo dei baby boomer, come i millenials, o generazione Y, chiamano i nonni. A cui seguirà la generazione Z, se tiene botta la lettera. Appartengo insomma alla generazione delle incognite, non per niente contraddistinta con la lettera X. Ho assistito al disfacimento, come neve al sole, della ideologia del socialismo reale di cui mi volevano vendere, in discoteca, un pezzo di intonaco spacciandolo per il “Berlin wall o mauer”. Ogni generazione del resto ha i suoi cocci da assemblare o riassemblare; una volta rotti non è detto che vi riesca. Non siamo alla fine della storia e del mondo hegeliano, lo spirito non è giunto al sapere di ciò che esso è veramente. La storia del mondo non è la rappresentazione del processo divino, del corso graduale in cui lo spirito conosce se stesso e la sua verità e la realizza altrimenti. Diversamente opinando, rovesciando il ragionamento come la frittata per fare cuocere l’altro lato, non saremmo ancora in preda della spaventosa ossessione, che tutto divora, delle guerre. Ho ascoltato Luttwak perorare l’esaltazione della bellezza della guerra e, se non fosse stato per il mezzo televisivo, avrei giurato di trovarmi ad inizio ‘900 in pieno futurismo. Queste le cornici che contengono un’opera impressa a grafite, ove esiste solo il bianco e il nero, mentre ogni altra sfumatura e colore sono spariti. Un linguaggio binario, riduttivo ed essenziale: bene e male, buono e cattivo, vita e morte, dio e demonio … Intellettualmente assai povero, come fossimo tornati tutti bambini orfani di bravi Maestri! E allora che significato consegnare a tutto quanto edificato in questi settant’anni di magnifici colori, di progressivo affrancamento di, per quanto lenta, emancipazione? Quale significato immanente consegnare al concetto di Pace, di democrazia, se gli strumenti per prevenire il contrario si sono ridotti ad una retorica spicciola e propagandistica. Come fare a strapparsi la benda dagli occhi per vedere che albe e tramonti, cielo e mare “vontano” di colori e sfumature? Come colmare la riduzione di questa narrazione? I pericoli della eccessiva semplificazione sono nella semplificazione stessa. Come si riconosce il giusto dallo sbagliato? L’Europa Unita, ci è stato raccontato, ha permesso che un continente travagliato da immani tragedie e guerre distruttive riuscisse a darsi e vivere in pace. Ma questo risultato pare d’un tratto svanire. La struttura alla prova dei fatti è stata incapace a prevenire, a bilanciare a mediare a tempo debito. E allora semplificando e riducendo non è peregrino che si inizi erroneamente a pensare a cosa serva? E questo è un rischio che si deve evitare rilanciando il concetto di unità e portandola a sua maturazione politica e non esclusivamente economica. E mentre si sostiene la necessità di questo step di crescita, come lo fu la guerra di secessione per forgiare gli Stati Uniti, occorre si tragga da questa tragedia la forza per compiere il progetto politico e istituzionale degli Stati Uniti d’Europa. Se ciò è vero è incomprensibile l’aumento delle spese militari al 2% del Pil, da 26 a 38 milioni di euro su base annua, se va a finanziare una struttura extra europea, che può avere interessi distopici e configgenti di breve e lungo periodo, che mal si conciliano con ciò che si vuole costruire in Europa. E in questo scenario le singole nazioni, colpite nelle proprie economie, riusciranno a non farsi travolgere nei loro aspetti socio-economici e istituzionali. In altri termini le istituzioni e il tessuto economico sociale dei singoli paesi riusciranno a tenere ed a resistere ai contraccolpi delle sanzioni e alle conseguenze di una guerra in seno al proprio territorio? Queste le domande a cui tentare di rispondere con scelte e futura azione politica cogente in un mondo globalizzato che sta riassestando i propri assetti e il peso delle egemonie continentali. Siamo nel bel mezzo di una transizione epocale che segue ad una rivoluzione industriale informatica che ha reso l’esistenza più veloce e dinamica e le destinazioni più vicine, ma non ha ancora saputo eliminare il vulnus e il neo della sete di dominio e superiorità che da la stura e il là al concetto di guerra come strumento per giungere al fine della egemonia territoriale e culturale degli uni sugli altri. Dunque assistiamo alla fine del tentativo di creare l’”homo novus” a cospetto di un uomo nuovamente iper identitario con il deflagrare di nuovi nazionalismi ed egoismi di nicchia sempre più esasperati, sebbene non solo su scale nazionale, ma anche seppur parzialmente continentale, in una rinnovata logica di blocchi contrapposti più estesa di quella precedente. P.S.Ecco, e concludo, è arrivata l’ora che venga designato chi avrà la responsabilità, afferrata la palla, di recarsi sul dischetto per tirare il calcio di rigore, consapevole che indossi una maglia, rappresenti una collettività che lo ha democraticamente indicato, consci che si è parte di un tutto che non è uno.
Roberto Roberto Urbinati