giovedì 2 febbraio 2012

Ci Costano

Sessanta milioni di euro all’anno: è questo il costo che si accollano i contribuenti italiani a causa delle perdite che tanti aeroporti italiani accusano da tempo. Dei 48 aeroporti presenti nel Paese, quasi la metà chiude da anni in profondo rosso i propri bilanci. I conti in dissesto sono il minimo comune denominatore che unisce tante gestioni aeroportuali, in lungo ed in largo per per l’Italia, da Bolzano a Palermo, passando per Verona, Brescia, Forlì, Rimini, Parma, Siena, Alghero, Crotone, Salerno, solo per citare alcuni dei maggiori responsabili dell’inaccettabile buco nero del sistema aeroportuale italiano. Lo studio commissionato dall’Enac nel 2006 al consorzio di esperti One Works-Nomisma-KPMG e completato nel 2009, muoveva appunto, come si legge nel rapporto Enac 2010, «da un’esigenza non più rinviabile di pianificazione del sistema aeroportuale».Ciò al dichiarato scopo di consegnare nelle mani del Governo «un Atlante che potrà costituire la base per la redazione del Piano Nazionale degli Aeroporti, fornendo gli indirizzi strategici su scala nazionale da assumere come riferimento programmatico di sviluppo degli scali e delle infrastrutture che ne garantiscono l’accessibilità e l’integrazione con il territorio». Il ministro dello sviluppo economico e dei trasporti Corrado Passera pare abbia fatto riemergere quello studio dalle sabbie mobili nelle quali Altero Matteoli, suo predecessore, lo aveva fatto scivolare. Al punto che l’ex Amministratore Delegato di Intesa San Paolo, nella illustrazione delle linee programmatiche al Parlamento, nonché in una serie di uscite sulla stampa, ha chiarito come l’Italia non possa permettersi di avere un aeroporto in ogni provincia.Passera ha fatto così intendere come la materia sia allo studio del ministero e sia possibile che un piano di riordino del sistema aeroportuale venga presentato nelle prossime settimane. Se ne trae conferma anche dal fatto che l’ultimo Cda di Enac ha deciso di sospendere gli ulteriori esami in corso per il rilascio delle concessioni per le gestioni aeroportuali, chiedendo al ministro una specifica direttiva per «verificare la percorribilità delle istruttorie già avviate, nel contesto del piano di riordino e di sviluppo degli aeroporti nazionali». Aeroporti che sono spuntati come funghi negli ultimi quindici anni e che ora fanno i conti non solo con la congiuntura negativa che incide pure sul business dei viaggi aerei, ma anche con la fine di un’epoca: quella delle cosiddette “vacche grasse”, della finanza pubblica generosa, che finanziava opere milionarie senza farsi troppe domande e con la stessa disinvoltura ripianava puntualmente, ad ogni esercizio, le perdite che nel caso di alcuni aerostazioni, non solo durano da anni, ma hanno raggiunti livelli di guardia.Sono invece 26,5 i milioni di euro bruciati dallo scalo di Parma dal 2003 al 2010, esercizio quest’ultimo, in cui la perdita ha raggiunto la bellezza di 4,7 milioni di euro, anche se nell’idea delle istituzioni locali avrebbe dovuto essere di servizio al sistema produttivo locale e fungere da volano per il turismo migliorando l’attrattività internazionale del territorio. Ma l’ambizioso obiettivo di fare di Parma un aeroporto di valenza nazionale era legata all’insediamento dell’Efsa, l’authority europea per la sicurezza alimentare. L’aeroporto di Parma è però rimasto fuori dalle principali rotte nazionali ed internazionali e nello scalo sono operativi un piccolo vettore come Air Vallee e Ryan Air per i soli collegamenti da e per London Stansted, l’aeroporto che dista circa un’ora di bus da Londra, ragion per cui tutti i flussi legati al turismo, agli affari ed all’Efsa passano per gli scali di Milano e Bologna.Oltre all’aeroporto di Parma, privatizzato nel 2008 ed il cui pacchetto di controllo (67,95%) è passato recentemente nelle mani della austriaca Meinl Bank, se la passano decisamente male altri due scali emiliani, invece saldamente in mano pubbliche: Forlì e Rimini. Nel primo caso le perdite accumulate tra il 2004 ed il 2010 sono state pari a circa 40 milioni di euro, a cui si andranno ad aggiungere almeno altri 5,5 milioni relativi al 2011, e il traffico passeggeri è in caduta libera. A ciò si aggiunge il fatto che dal 2008 lo scalo ha perso prima Ryanair, passata a Bologna e successivamente Wind Jet, trasferitasi nello scalo di Rimini, localizzato a soli 50 chilometri da quello di Forlì. Nel caso di Rimini, nonostante i passeggeri siano aumentati negli anni (920mila 549 nel 2011, + 66,5% sul 2010), i numeri sono ancora lontani da quelli che i soci pubblici (81,27%) e privati (18,73%) della società di gestione dell’aerostazione romagnola hanno sempre immaginato potessero derivare in particolare dall’indotto del turismo rivierasco e dall’attività fieristica. Di conseguenza i conti continuano da anni a non tornare e se il 2010 si è chiuso con una perdita di 7,6 milioni di euro, il 2011, stando ai rumor, potrebbe essere andato ancora peggio. Insomma un quadro assai complicato per gli scali emiliani (eccezion fatta per quello di Bologna), a cui la Regione Emilia-Romagna, da oltre un anno sta cercando di porre rimedio, tentando di superare diffidenze e campanilismi per convincere Forlì e Rimini ad aggregarsi in vista dell’ingresso, assieme a Bologna, in un unico contenitore societario regionale, già costituito e nel quale le istituzioni regionali hanno messo 3 milioni di euro.


 linkiesta.it