Dal dizionario Treccani versione Web:
vulneràbile agg. [dal lat. vulnerabĭlis, der. di vulnerare «ferire»]. –
Che può essere ferito, che può essere attaccato, leso o danneggiato.
O ancora: esposto, scoperto, sensibile.
Capita che parlando il “politichese” locale, non solo con gli addetti, ma
anche e soprattutto con coloro che hanno un forte coinvolgimento per
quanto riguarda tutte le situazioni di disagio che la società civile tende
a marginalizzare (mettendo in campo interventi che il più delle volte
celebrano il bisogno di tutele e supporto, piuttosto che cercare di
eliminarlo), si senta più volte utilizzare l’espressione “fasce deboli”
della popolazione per indicare genericamente bambini, persone con
disabilità, anziani, ma anche e più nello specifico, stranieri (chi è alle
prese con la propria condizione di immigrato), donne, donne
immigrate, donne incinte, donne vittime di violenza, bambini vittime di
violenza, anziani vittime di violenza...
Proseguendo l’analisi e cercando di affrontare i concetti dalla
prospettiva del principio che li genera, viene da pensare a quanto sia
brutta questa espressione “fasce deboli” e a quanto l’utilizzo di questa
rischi di essere un modo per “accatastare” come “bisognoso” chi non
può difendersi, per un motivo o per un altro.
Invece è più giusto pensare che se qualcuno in generale presenta una
debolezza, nella maggior parte dei casi non è una sua scelta, ma
sono le condizioni naturali o sociali che determinano questo suo stato.
Essere bambini o anziani o donne o animali è inevitabile, essere
poveri, ammalati, soli, può essere stato inevitabile.
Accettare la naturalità della maggiorparte delle condizioni sopra citate
servirebbe a modificare il discorso relativo a “chi ha bisogno” e “di che
cosa”.
A questo proposito si potrebbero modificare tutti i termini e tutte quelle
espressioni che tanto ci sforziamo di elaborare, cercando allo stremo
quello più “politically correct” o che comunque non leda una miriade di
sensibilità.
Il termine “vulnerabile” sembra il più adatto per spazzare via tutta la
facciata di compassione misto pena che spesso si riserva a qualcuno
in stato di necessità, e forse permette di tornare a una vicinanza alla
realtà delle cose, contemplando tutti gli elementi che orbitano intorno
a chi è (a questo punto va sdoganato) vulnerabile, ponendo al centro
non il bisogno di qualcosa, nemmeno la mancanza di qualcos’altro,
bensì la possibilità di essere ferito-attaccato-leso-danneggiato, proprio
perchè può essere scoperto, quindi esposto, per cui sensibile ad
attacchi.
Allo stesso tempo, con questo termine viene richiamata la
responsabilità di chi invece vulnerabile non lo è (momentaneamente
magari…) ma può e deve fare parte del binomio “colpevole-colpito”,
nel senso che se qualcuno è vulnerabile, è perchè qualcun altro può
colpirlo e ferirlo, e il carico se lo devono prendere tutti quelli che sono
dei possibili “danneggiatori” con i loro comportamenti incoscienti e
inconsapevoli.
Sembra una sciocchezza, ma il significato delle parole non è sempre
così scontato e ogni volta che le utilizziamo dovremmo interrogarci un
pò di più sul fatto che con un termine ci stiamo riferendo a una
situazione particolare ma che può avere bisogno di una definizione
basata più sulle condizioni universali del genere umano, piuttosto che
sulla singolarità di chi vive fuori dai canoni di “normalità” dettati dai
regolamenti.
In questo modo si può pensare di responsabilizzare chi si sente
esonerato dalla preoccupazione della vulnerabilità degli altri,
richiamandolo a un ruolo sociale e civile che il suo comportamento di
cittadino dovrebbe imporgli a prescindere.
Arianna Adanti
Arianna Adanti