lunedì 21 maggio 2018

Vulnerabilità

Dal dizionario Treccani versione Web: vulneràbile​ agg. [dal lat. vulnerabĭlis, der. di vulnerare «ferire»]. – Che può essere ferito, che può essere attaccato, leso o danneggiato. O ancora: esposto, scoperto, sensibile. Capita che parlando il “politichese” locale, non solo con gli addetti, ma anche e soprattutto con coloro che hanno un forte coinvolgimento per quanto riguarda tutte le situazioni di disagio che la società civile tende a marginalizzare (mettendo in campo interventi che il più delle volte celebrano il bisogno di tutele e supporto, piuttosto che cercare di eliminarlo), si senta più volte utilizzare l’espressione “fasce deboli” della popolazione per indicare genericamente bambini, persone con disabilità, anziani, ma anche e più nello specifico, stranieri (chi è alle prese con la propria condizione di immigrato), donne, donne immigrate, donne incinte, donne vittime di violenza, bambini vittime di violenza, anziani vittime di violenza... Proseguendo l’analisi e cercando di affrontare i concetti dalla prospettiva del principio che li genera, viene da pensare a quanto sia brutta questa espressione “fasce deboli” e a quanto l’utilizzo di questa rischi di essere un modo per “accatastare” come “bisognoso” chi non può difendersi, per un motivo o per un altro. Invece è più giusto pensare che se qualcuno in generale presenta una debolezza, nella maggior parte dei casi non è una sua scelta, ma sono le condizioni naturali o sociali che determinano questo suo stato. Essere bambini o anziani o donne o animali è inevitabile, essere poveri, ammalati, soli, può essere stato inevitabile. Accettare la naturalità della maggiorparte delle condizioni sopra citate servirebbe a modificare il discorso relativo a “chi ha bisogno” e “di che cosa”. A questo proposito si potrebbero modificare tutti i termini e tutte quelle espressioni che tanto ci sforziamo di elaborare, cercando allo stremo quello più “politically correct” o che comunque non leda una miriade di sensibilità. Il termine “vulnerabile” sembra il più adatto per spazzare via tutta la facciata di compassione misto pena che spesso si riserva a qualcuno in stato di necessità, e forse permette di tornare a una vicinanza alla realtà delle cose, contemplando tutti gli elementi che orbitano intorno a chi è (a questo punto va sdoganato) vulnerabile, ponendo al centro non il bisogno di qualcosa, nemmeno la mancanza di qualcos’altro, bensì la possibilità di essere ferito-attaccato-leso-danneggiato, proprio perchè può essere scoperto, quindi esposto, per cui sensibile ad attacchi. Allo stesso tempo, con questo termine viene richiamata la responsabilità di chi invece vulnerabile non lo è (momentaneamente magari…) ma può e deve fare parte del binomio “colpevole-colpito”, nel senso che se qualcuno è vulnerabile, è perchè qualcun altro può colpirlo e ferirlo, e il carico se lo devono prendere tutti quelli che sono dei possibili “danneggiatori” con i loro comportamenti incoscienti e inconsapevoli. Sembra una sciocchezza, ma il significato delle parole non è sempre così scontato e ogni volta che le utilizziamo dovremmo interrogarci un pò di più sul fatto che con un termine ci stiamo riferendo a una situazione particolare ma che può avere bisogno di una definizione basata più sulle condizioni universali del genere umano, piuttosto che sulla singolarità di chi vive fuori dai canoni di “normalità” dettati dai regolamenti. In questo modo si può pensare di responsabilizzare chi si sente esonerato dalla preoccupazione della vulnerabilità degli altri, richiamandolo a un ruolo sociale e civile che il suo comportamento di cittadino dovrebbe imporgli a prescindere.
 Arianna Adanti