mercoledì 17 giugno 2020

J.J.Rousseau

Rousseau giudice di Jean Jacques, secondo dialogo. Bene, proviamo a svegliarci dal letargo. Rousseau esercitò un potente influsso nella cultura europea del ‘700, padre e precursore del “movimento romantico” con il suo appello al cuore, alla “sensibilità” che vince sulla razionalità, dunque iniziatore di quei sistemi di pensiero che deducono i fatti extra-umani dai sentimenti umani, l’inventore delle dittature pseudo-democratiche sorte in antitesi alle monarchie assolute. Personalmente credo che per tentare di comprendere davvero Rousseau occorra partire dalla seguente premessa che ci fornisce direttamente lui ove scrive: << Il primo uomo che, avendo cintato un pezzo di terra, si credette in diritto di dire: “ questa è mia ” e trovò della gente abbastanza ingenua per credergli, fu il fondatore della società civile >>. A dire: l’origine della società civile e delle conseguente ineguaglianza sociale va ricercata nella proprietà privata. Da qui rampolla l’esaltazione e il mito del buon selvaggio che lo porterà a litigare con Voltaire. Per evitare il male bisognerebbe abbandonare la civiltà, perché l’uomo non solo nasce buono, ma è naturalmente buono e lo dimostra proprio il “selvaggio”; quando ha pranzato è in pace con la natura ed è amico di tutti i suoi simili. Vi è un costante tentativo di addivenire ad un superamento della ragione a favore del sentimento. Ma è con il “contratto sociale” che Rousseau tratteggia con forza la propria teoria politica, laddove difende la “democrazia” negando e recidendo al contempo il diritto divino del Re. Paradossalmente un’opera che contiene molto ragionamento e assai ben poco sentimento. E allora leggiamo che il “contratto sociale”, pericolosamente, consiste nella << totale alienazione di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, all’insieme della comunità ... Ciascuno offre se stesso senza alcun limite, le condizioni sono identiche per tutti; e, stando così le cose, nessuno ha interesse a rendere le condizioni gravose per gli altri... >>. Orbene il neo che si intravede a mio attento interpretare squarciando l’apparenza è come Rousseau nella foga di difendere e rendere omaggio alla “democrazia” trasmodi, invero, nella giustificazione del totalitarismo. Da qui l’elogio di Sparta, delle Città-Stato poiché nei piccoli Stati la democrazia è migliore, mentre l’aristocrazia lo sarebbe in quelli di medie dimensioni e la monarchia in quelli grandi, prediligendo Egli ovviamente quelli di piccole dimensione ove a suo dire è più facile la partecipazione diretta di tutti i cittadini alla vita pubblica. Il contratto sociale, mi avvio a concludere, può definirsi così: << ciascuno di noi pone la sua persona e tutti i poteri in comune sotto la suprema direzione della volontà generale e, nella nostra capacità collettiva, ciascun membro è concepito come una parte indivisibile del tutto >>. Se non siamo agli albori dello Stato etico le analogie sono inquietanti, che uno valga solo e sempre uno perché è importante il totale porta in sé sinistre analogie con sistemi totalitaristi. Il “contratto sociale” ebbe notevole successo e divenne la Bibbia di taluni capi della Rivoluzione francese ma lo stigma della esaltazione della dottrina della volontà generale rese possibile la totale e mistica identificazione del capo col popolo, talmente profonda e viscerale fu questa sovrapposizione da rendere poi inutile ogni conferma della leadership attraverso il ricorso a fatui strumenti elettivi come le urne. P.S. Ebbe a dire Bertrand Russell
Roberto Urbinati