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Rousseau giudice di Jean
Jacques, secondo dialogo.
Bene, proviamo a svegliarci dal letargo. Rousseau esercitò un potente influsso nella cultura europea del
‘700, padre e precursore del “movimento romantico” con il suo appello al cuore, alla “sensibilità” che vince
sulla razionalità, dunque iniziatore di quei sistemi di pensiero che deducono i fatti extra-umani dai
sentimenti umani, l’inventore delle dittature pseudo-democratiche sorte in antitesi alle monarchie assolute.
Personalmente credo che per tentare di comprendere davvero Rousseau occorra partire dalla seguente
premessa che ci fornisce direttamente lui ove scrive: << Il primo uomo che, avendo cintato un pezzo di terra,
si credette in diritto di dire: “ questa è mia ” e trovò della gente abbastanza ingenua per credergli, fu il
fondatore della società civile >>. A dire: l’origine della società civile e delle conseguente ineguaglianza sociale
va ricercata nella proprietà privata. Da qui rampolla l’esaltazione e il mito del buon selvaggio che lo porterà
a litigare con Voltaire. Per evitare il male bisognerebbe abbandonare la civiltà, perché l’uomo non solo
nasce buono, ma è naturalmente buono e lo dimostra proprio il “selvaggio”; quando ha pranzato è in pace
con la natura ed è amico di tutti i suoi simili.
Vi è un costante tentativo di addivenire ad un superamento della ragione a favore del sentimento. Ma è con
il “contratto sociale” che Rousseau tratteggia con forza la propria teoria politica, laddove difende la
“democrazia” negando e recidendo al contempo il diritto divino del Re. Paradossalmente un’opera che
contiene molto ragionamento e assai ben poco sentimento.
E allora leggiamo che il “contratto sociale”, pericolosamente, consiste nella << totale alienazione di ciascun
associato, con tutti i suoi diritti, all’insieme della comunità ... Ciascuno offre se stesso senza alcun limite, le
condizioni sono identiche per tutti; e, stando così le cose, nessuno ha interesse a rendere le condizioni
gravose per gli altri... >>.
Orbene il neo che si intravede a mio attento interpretare squarciando l’apparenza è come Rousseau nella
foga di difendere e rendere omaggio alla “democrazia” trasmodi, invero, nella giustificazione del
totalitarismo. Da qui l’elogio di Sparta, delle Città-Stato poiché nei piccoli Stati la democrazia è migliore,
mentre l’aristocrazia lo sarebbe in quelli di medie dimensioni e la monarchia in quelli grandi, prediligendo
Egli ovviamente quelli di piccole dimensione ove a suo dire è più facile la partecipazione diretta di tutti i
cittadini alla vita pubblica.
Il contratto sociale, mi avvio a concludere, può definirsi così: << ciascuno di noi pone la sua persona e tutti i
poteri in comune sotto la suprema direzione della volontà generale e, nella nostra capacità collettiva,
ciascun membro è concepito come una parte indivisibile del tutto >>. Se non siamo agli albori dello Stato
etico le analogie sono inquietanti, che uno valga solo e sempre uno perché è importante il totale porta in sé
sinistre analogie con sistemi totalitaristi.
Il “contratto sociale” ebbe notevole successo e divenne la Bibbia di taluni capi della Rivoluzione francese ma
lo stigma della esaltazione della dottrina della volontà generale rese possibile la totale e mistica
identificazione del capo col popolo, talmente profonda e viscerale fu questa sovrapposizione da
rendere poi inutile ogni conferma della leadership attraverso il ricorso a fatui strumenti elettivi come le
urne.
P.S. Ebbe a dire Bertrand Russell
Roberto Urbinati