martedì 25 luglio 2017

Un Giorno di Ordinaria Follia, Giudiziaria

PARTE II: Tu sii na malatiia!
Quelli sotto i 30 anni non sanno manco chi sia Peppino di Capri, e io stesso che sentivo canticchiare questa canzone da mia madre pensavo tra me e me: “roba da vecchi”. Un po' quello che pensano i nostri figli quando si ascolta Baglioni. Il testo è del 1958 e racconta come un amore possa essere indebellabile al pari di una “malatiia”. Ecco, a quei tempi, negli anni 50/60, quando si moriva di cancro o di tumore, si diceva che era morto di malattia, accompagnando la frase con una faccia eloquente a dire che era morto di “quella” malattia, talmente brutta, che neanche si nominava, una riverenza comunque giustificata: sia dalla scaramanzia che dalla paura . Perché il cancro si conosceva poco e nella cultura e costume italiano se ne aveva pudore, o riverenza, a seconda che il pensiero fosse volto al morto od all'eventualità di esserne colpiti (con tutti gli scongiuri del caso). Si diceva: “di che è morto? Ehhh, di un brutto male…” abbassando lo sguardo. E tu capivi che era morto di quella parola che faceva tanta paura. Oggi invece siamo andati avanti, si, e proprio la prevenzione quale miglior cura necessita di informazioni chiare. La parola tumore o cancro si è sdoganata anche in campo letterario e giornalistico: “un cancro sociale”. Concetto che evoca direttamente l’estirpazione. Ho accompagnato una persona cara in questo percorso esitato nell’happy end, e ricordo perfettamente la sensazione che il malato ha quando gli viene comunicata la diagnosi: un’irrefrenabile desiderio di estirpare quello che, da quel momento in poi, sentirà come un corpo estraneo, una sorta di Alien da espellere in ogni modo. Inizia un giro di giostra di pareri, consulti ed accertamenti che costringe la vita ad occuparsi della vita stessa. Perché improvvisamente ci accorgiamo che davanti ai nostri occhi c’è un orizzonte, un limite, un confine. Le priorità si ricalcolano a suon di “eh, se?”. Deve essersi sentita così anche Caterina, nome di fantasia, di un’ impiegata di un comune della Romagna che anche lei si trovava nella sezione lavoro del tribunale di Rimini. Prima o dopo i” cavolini di Bruxelles”, Caterina ricorreva contro il suo datore di lavoro perché non gli aveva riconosciuto completamente il totale dei giorni per i quali era stata assente da malattia. Parrebbe infatti secondo la tesi del legale del datore di lavoro, che secondo il decreto Madia ( quello che doveva mettere in riga i fannulloni della pubblica amministrazione), anche in caso di gravi patologie sono riconosciuti solo quei giorni strettamente necessari alle cure, a nulla valendo tutti gli effetti collaterali, compreso quelli psicologici. Così Caterina per difendersi è stata costretta a raccontare a tutti, che circa due anni fa le fu diagnosticato un cancro al seno. Particolarmente aggressivo da recidivare nel giro di pochi mesi. Così ha subito due interventi, il secondo di escissione totale del seno e sua ricostruzione. Gli ci sono voluti un anno e mezzo per tornare al lavoro: troppo! Ma non per tutti, perché tra “ anghingo’ tre galline e tre cappo’ “ dei due legali che arringavano suon di interpretazioni diametralmente opposte, scappa fuori che, se Caterina fosse stata dipendente di una ASL, per esempio, questo problema non lo avrebbe avuto. Insomma era malata di un Dio minore. Così l’avvocato del comune conclude l’arringa producendo un calendario depurato dei giorni no e con tutta la sua emozionata comprensione ricorda a Caterina che suoi colleghi malati come lei “Non se lo sono potuto permettere di stare a casa”. Un Signore! Tutto questo mentre, ormai in lacrime, Caterina confessa di essere rimasta chiusa in casa perché si vergognava di essere calva. Una mostruosa contabilizzazione di una sofferenza. È stata processata la riverenza! 
Giorgio Cerasani