lunedì 30 giugno 2014

Le Antipatiche Province

Le province sono sempre stati enti antipatici. Rimandano, già dal nome, l'idea di un dominio dello Stato centrale. Negli anni di grande attività ed impegno riformatore, seguiti alla grande vittoria del Pci nelle elezioni del 75, ripetuta l'anno dopo, dovevano sparire assieme alla figura del prefetto che allora era il Tutor degli enti locali, legittimava tutti gli atti svolgendo una ferrea funzione di controllo. Il compromesso storico e peggio i primi tentativi di inciucio, annullarono le grandi speranze di una prima rivoluzione istituzionale. Siamo tornati, nel classico giochino italiano, al punto di partenza, anzi le province avevano assunto negli ultimi anni un potere davvero scandaloso. Non è tanto e solo perchè ci hanno sfornato presidenti come Fabbri e Viali, colpe non emendabili o per avere affossato Aeradria, permesso ed incentivato il Palas ed il Trc, ma, parere personale, per avere concesso il placet ad almeno 90 varianti riminesi senza alcun rossore urbanistico. A cosa servivano? A Rimini, in estate con grandi feste pagate da noi, incoronavano il personaggio imprenditoriale dell'anno: il Made in Rimini. Se pensate che uno dei primi insigniti è stato Cagnoni, allora converrete sulla chiusura. Si discute della loro abolizione fin dall’assemblea costituente del 1947 eppure ancora oggi resistono. Le ultime nate sono quelle di Fermo, Monza-Brianza e di Barletta-Andria-Trani: istituite nel 2004 sono divenute operative a partire dal 2009, portando così il totale delle province italiane a 110. Negli ultimi anni il montante disprezzo dell’opinione pubblica per la classe politica e per i suoi costi, ha alzato il vento dell’abolizione di questi enti territoriali, a metà via tra le Regioni e i Comuni. I partiti politici hanno iniziato a promettere all’unisono, la soppressione delle province in campagna elettorale. Il governo Monti, con il decreto Salva Italia del dicembre 2011, è stato il primo a dare una forte accelerazione al processo di abolizione. In base al testo della norma le province perdevano molte delle loro competenze e diventavano enti di secondo livello, cioè eletti non dai cittadini ma dai sindaci dei Comuni. A luglio 2012 il decreto sulla spending review prevedeva poi la riduzione del loro numero. Entrambi questi provvedimenti sono stati bocciati nel luglio 2013 dalla Corte Costituzionale, che ha accolto il ricorso presentato da otto Regioni: lo strumento del decreto legge non era adeguato. Per evitare che questa primavera si tornasse a votare per degli enti che, secondo quanto affermato dal governo Letta e ribadito dal governo Renzi, saranno presto aboliti con legge costituzionale, il Parlamento ha varato in aprile il ddl Delrio. La legge, che entrerà pienamente in vigore a inizio 2015, riprende l’impianto dei decreti del governo Monti: le province diventano enti di secondo livello, il presidente sarà il sindaco del Comune capoluogo e le altre cariche andranno ad amministratori municipali. Significa che cadiamo dalla Padella Vitali alla Molo Gnassi. Al tempo stesso cambiano le loro funzioni: su trasporti, ambiente e mobilità avranno la semplice pianificazione, sull’edilizia scolastica manterranno la gestione e cominceranno a occuparsi anche di pari opportunità. Tutte le altre competenze (istruzione, servizi sanitari, sviluppo economico, mercato del lavoro etc) passeranno ai Comuni, a meno che le Regioni non decidano di avocare a sé la materia. Una stronzata colossale, mantieni in piedi un carrozzone per imbiancare le scuole. Ma se dovessero davvero scomparire completamente si porrebbero allora una serie di questioni organizzative, per lo Stato e non solo. Le province esistono da che esiste l’Italia unita e molte istituzioni dello Stato si sono plasmate sulla loro esistenza. In primo luogo i prefetti. Anche questure, tribunali, vigili del fuoco, carabinieri e la guardia di finanza hanno una struttura organizzativa che si è modellata sull’esistenza delle province, la motorizzazione civile ha uffici distribuiti sul territorio su base provinciale. Problemi simili si avrebbero poi anche con l’Inps, l’Agenzia delle entrate e gli uffici provinciali del lavoro. Una soluzione potrebbe essere mantenere in vita la “dimensione” delle province, pur avendo abolito per Costituzione l’ente relativo. Altrimenti si andrebbe incontro a uno scenario di ipertrofia dell’apparato pubblico, con sedi comunali per qualunque funzione oppure di sua eccessiva distanza dal cittadino, accentrando gli uffici nel capoluogo di Regione. In ogni caso la sopravvivenza delle province dovrebbe essere garantita almeno al livello delle targhe automobilistiche: trovare 110 sigle per le province è stato difficile, immaginarne più di 8 mila per i comuni sarebbe impossibile. RN sarà il titolo della prossima Festa di Gnassi.