mercoledì 22 aprile 2020

Abissi-Capolavoro N1

Un fischio. Interrotto. Ripetuto.
Qualche colpo ritmato di tamburo.
Altalene di corde pizzicate con vigore. 
E poi le parole.
E poi il mare.
E poi l’abisso. 
Capolavoro n 1. 
Com’è profondo il mare.
Nessuna politica. 
No ambientalismi. 
No umanitarismi. 
No proseliti né profeti. 
Una visione cantata che torna e ritorna incessantemente. 
Lucio vedevi le cose che si rivivono sempre quasi uguali in epoche sempre diverse. Tutte le parole, tutte, tranne nessuna, mi dicono dove siamo oggi, ora, adesso. Soffiano i pesci la profondità del mare e noi uomini non riusciamo a prendere respiro. Canzone da ascoltare per intere giornate. 
Dice che non abbiamo da mangiare. Ed è l’abisso. 
Dice che mancano il lavoro e il decoro. Ed è l’abisso. 
Dice che al povero viene dato un ruolo da mantenere e poi viene lasciato cadere. Ed è il terribile abisso. 
Solo in mezzo al mare. Profondissimo. 
E poi la storia del povero che deve fare la guerra per riavere la terra che il suo cuore gli dice di coltivare, ma gli tolgono pure quella di dosso. 

Un atroce abisso tra esseri umani. 

Urla, pianti, catene, bastonate. 
E torna la storia. Torna questa storia. 
Che ci fa commuovere credendo di redimerci e ripulire le nostre colpe. I nostri pianti da osservatori dei più deboli allargano gli abissi. 
Soffriamo. O guardiamo. 
 Le pene o la compassione. 
Il mare, l’unico posto sulla terra dove da organismi unicellulari non potevamo percepire il vuoto. E i pesci lo sanno e muti osservano e pensano ai pazzi umani. Torniamo a noi ora sulla terra, oggi fermi con le coscienze immobili e non sappiamo se di morte si può davvero morire, o se si muore prima di mancanze e vuoti che ci vengono a prendere. 
La riascolto ancora una volta. Mi sembra incredibilmente semplice. 
Tutti noi uomini persi in un abisso dal momento che da miseri esseri viventi ci siamo trasformati in poveri individui, costretti a scappare dalla povertà ogni istante della nostra esistenza. 
Adesso forse la povertà diventerà una minaccia ma possiamo, osservandoci, vedere come sia solo un ruolo, un’etichetta, quando invece è la miseria della singolarità di ognuno che può dar vita alle nostre esistenze, non lontane dagli abissi, anzi proprio lì dentro. 
Negli abissi della sofferenza non saremo mai scaraventati a terra, non potremo mai cadere, solo sprofondare nei drammi e giù in profondità essere costretti a spremere i polmoni per risalire. 
Da laggiù, dove tutto ricomincia, dove non ci sono confini e frontiere, dove manca anche l’aria, non si ferma il pensiero non, si divide il pensiero dal sentimento. Da laggiù in profondità la spinta a risalire è la più forte. 
Dagli abissi si risale. 
Sempre.
Arianna Adanti