sabato 28 gennaio 2012

Lenta Agonia

La lenta agonia del Pdl sotto i colpi del governo Monti. Il partito di Berlusconi sembra avviato al capolinea. È in caduta libera nei sondaggi, lacerato da divisioni interne, in preda al panico. La parentesi del governo tecnico sta accelerando la fine della creatura berlusconiana. L’asse con Bossi è sempre più incerto. E in molti ora temono la profezia di Verdini: «Se continuiamo così finiamo al 15 per cento». ShareEmailStampa Silvio Berlusconi col segretario del Pdl Angelino Alfano POLITICA 27 gennaio 2012 - 18:12 I due deputati berlusconiani si incrociano davanti al ristorante della Camera. È mercoledì, ora di pranzo, il corridoio affollato di colleghi e qualche giornalista. Una stretta di mano e poche battute. «Stanno uccidendo il partito» dice a un certo punto il primo, un incarico di responsabilità nel gruppo di Montecitorio. E mentre l’altro annuisce, rincara: «Ci resta una lunga agonia». Ad alta voce, davanti a tutti, senza alcuna ironia. Va in scena l’ultimo capitolo del Popolo della libertà, così come lo avevamo conosciuto. Un partito in caduta libera nei sondaggi, lacerato da scontri interni, in preda al panico. Dove i malumori - un tempo andava di moda definirli mal di pancia - non hanno più bisogno di essere nascosti. Perché ormai, racconta al telefono con cinico realismo un fedelissimo del Cavaliere, «siamo alla conclusione di un ciclo. È la fine di un’epoca». L’ultima mossa, quella della disperazione, è stata la decisione di appoggiare il governo tecnico. Forte di una maggioranza sempre più risicata, a novembre Berlusconi si è dovuto arrendere e ha lasciato Palazzo Chigi. Sostenendo l’esecutivo Monti il Cavaliere sperava almeno di avere il tempo necessario per serrare i ranghi, risalire nei sondaggi e prepararsi alle consultazioni del prossimo anno. L’obiettivo era quello di presentarsi in campagna elettorale con un credito importante: quel passo indietro fatto per senso di responsabilità. Quelle dimissioni «senza mai essere stato sfiduciato dalla Camere» di cui l’ex presidente del Consiglio continua a parlare. Niente da fare. Dal giorno in cui si è insediato il nuovo governo, il già traballante Pdl ha iniziato a franare. «Oggi se va bene siamo poco sopra il 20 per cento - commenta un berlusconiano in Transatlantico - Almeno questo è il risultato di uno degli ultimi sondaggi che il Cavaliere ha commissionato ad Alessandra Ghisleri». Sondaggi, raccontano, che ormai arrivano sulla scrivania di Palazzo Grazioli con allarmante frequenza. «Se continua così - prosegue - la profezia di Denis Verdini diventerà realtà: a fine legislatura sprofondiamo al 15 per cento». Il governo tecnico prosegue il suo lavoro e il Pdl perde consensi. A sentire i berlusconiani più cattivi non sarebbe un caso. Mario Monti ha accelerato in tema di liberalizzazioni. Colpendo autonomi, piccoli imprenditori, categorie elettoralmente vicine al Cavaliere. Ma quando si è trattato di discutere di riforma del lavoro e modificare l’articolo 18 - argomenti più cari al centrosinistra - ha tirato il freno a mano. E così a pagare le scelte impopolari del governo dei professori è rimasto solo il Popolo della libertà. Con buona pace dei dirigenti berlusconiani che per rassicurare il proprio elettorato continuano a ripetere quella frase: «Siamo stati responsabili, ma non voteremo a scatola chiusa tutti i provvedimenti che Monti porterà in Parlamento». Lo dicono in tv, alla radio, sui giornali. È diventato un mantra. Un modo per confermare ai propri militanti - ma anche a se stessi - di esistere ancora. Una strategia studiata a via dell’Umiltà che, sondaggi alla mano, non sembra avere troppo successo. Le prime conseguenze potrebbero arrivare a breve. Tra qualche mese milioni di italiani torneranno a votare per le amministrative. Ma sulle alleanze - in particolare sul rapporto con la Lega Nord - è ancora mistero. Chi sperava in un riavvicinamento tra Berlusconi e Bossi - due leader alla disperata ricerca del consenso perduto - ieri ha dovuto assistere all’ennesimo scontro. Con il Cavaliere che si è preso della «mezza cartuccia» dall’ex alleato per aver assicurato il suo appoggio a Monti. Senza accordo, si rischia il tracollo. Su 28 capoluoghi di provincia in cui si apriranno le urne, stavolta il Pdl potrebbe spuntarla solo in poche realtà. Intanto il partito inizia a lacerarsi. Da una parte i dirigenti decisi a sostenere il governo tecnico, dall’altra gli ostinati del voto anticipato. «Ormai il partito ha preso una decisione - raccontano al telefono dalle truppe lealiste - la linea resta quella della responsabilità». Tra di loro ci sono il capogruppo Fabrizio Cicchitto, gli ex ministri Franco Frattini, Raffaele Fitto e Mariastella Gelmini. Contro, il fronte degli intransigenti. Quelli che dai giorni della crisi di governo non hanno mai smesso di chiedere al capo di interrompere la legislatura. Tanti ex An, ma non solo. Dietro ai due eserciti, sempre più terrorizzati all’idea di scomparire, i piccoli del partito. Parlamentari quasi sempre alla prima legislatura, con poche o nessuna possibilità di essere rieletti. Raccontare un partito diviso a metà sarebbe superficiale. Le distinzioni sono molte di più. Nel Pdl c’è chi sogna una scissione tra ex An e Forza Italia (stando ad alcune indiscrezioni questo progetto permetterebbe di raccogliere qualche voto in più). Chi immagina una federazione tripartita tra gli eredi della destra e delle culture liberale e popolare. Chi pensa a un Pdl del Nord e uno del Sud, per contendere i voti ai leghisti. E poi ci sono quelli che vogliono rinsaldare l’asse con Umberto Bossi e quelli che preparano il terreno per la nascita di un partito popolare italiano (tradotto: un’alleanza con l’Udc di Pier Ferdinando Casini). «Insomma - racconta un berlusconiano della prima ora - gli elementi di divergenza all’interno del partito sono diventati troppi. La scomposizione del Pdl e la nascita di nuovi soggetti politici ormai è inevitabile».
marco sarti 
linkiesta.it