domenica 30 marzo 2014

Camere di Commercio ...da riformare

Spostare il focus dalle corporazioni alle imprese In tempi di “spending review” non sembrano esserci più santuari, neppure nella pubblica amministrazione. Dopo l’abolizione delle province (la cui effettività dovrà essere verificata a tempo debito) si profilano all’orizzonte altre potenziali vittime illustri, quali ad esempio le Camere di Commercio. Queste strutture, che non a caso sono a loro volta organizzate su base provinciale, sono entrate nel mirino del Governo Renzi nell’ambito del cosiddetto “Jobs Act”, che prevede l’eliminazione del pagamento dei diritti camerali a carico delle imprese, cioè della principale voce di ricavo nei bilanci delle Camere di Commercio, compromettendone quindi in prospettiva la stessa esistenza futura. Il tema merita un confronto, serio e costruttivo, perché le Camere costituiscono l’altro lato della medaglia della funzione svolta in ambito privato dalle associazioni di categoria nello stratagico campo dei servizi alle imprese, uno dei settori cruciali per contribuire a rilanciare la nostra economia. Se sul piano privato le organizzazioni imprenditoriali stanno scontando un grave problema di rappresentatività, sul versante pubblico si pone urgentemente la questione di un maggior efficientamento di strutture che costituiscono costi importanti e la cui operatività a servizio delle imprese non è sempre all’altezza della situazione: pensiamo infatti ad agenzie come l’ICE (istituto per il commercio con l’estero), oppure l’ENIT nel campo della promozione turistica, vittime di tante riforme annunciate e mancate, di incertezza legislativa, ma soprattutto della propria autoreferenzialità. Tornando specificamente sulla Camera di Commercio, si tratta a mio avviso di una nobile istituzione dal vago sapore ottocentesco, la cui funzione si può riassumere nella tenuta dell’anagrafe delle imprese, nonché nella promozione economica di un dato territorio. Le 107 camere provinciali (a cui vanno aggiunte quelle miste all’estero) rappresentano un presidio sui territori di taluni servizi, nonché punto di riferimento della cultura economica locale, eppure non si può proprio dire che tutte eccellano per efficienza ed oculatezza. Ed in tempi di crisi della finanza pubblica gli sprechi sono a mio avviso assimilabili come colpa al reato di evasione fiscale ! Il governo Renzi si trova nella necessità di conseguire risultati immediati per ridare un po’ di fiducia ad imprese e famiglie, per questo non guarda in faccia nessuno e così il piano Cottarelli prevede la graduale cancellazione dei diritti camerali nell’arco di un triennio, fino alla quasi cancellazione: significherebbe la fine di questi enti, perlomeno per come li abbiamo conosciuti finora. Il compassato mondo camerale è andato in panico, trovandosi fortemente spiazzato da questa drastica ipotesi; eppure Unioncamere deve anzitutto rimproverare sé stessa per essersi fatta trovare gravemente impreparata in questo momento difficilissimo per il sistema economico, colpevole di non aver provveduto autonomamente ad una necessaria autoriforma. Pigrizia mentale, mancanza di coraggio, cinica e furbesca ricerca di mantenere una comoda rendita di posizione, possono esserne le chiavi di lettura, fatto è che adesso pare giunto il momento di cambiare registro. Per andare sul concreto, prendiamo la Camera di Rimini: su un bilancio di circa dodici milioni di euro conta entrate per diritti camerali per circa dieci milioni, il che fa ben capire cosa implicherebbe l’entrata in vigore dello “Jobs Act”. Non solo, ma circa il 70% dei costi attiene al personale ed al funzionamento della tecnostruttura, lasciando pertanto alla funzione di promozione economica solo il restante 30%. Questi numeri testimoniano un sistema che non è più compatibile con il mondo economico reale. Le Cciaa sono diventate di fatto delle “Camere delle corporazioni”, dove tutte le associazioni di categoria fanno a gara per accaparrarsi cariche e prebende, nonché per gestire le risorse promozionali per fare bella figura. Al contempo, si badi bene, la burocrazia camerale vede spesso i rappresentanti delle categoria come “invasori”: la Camera è teoricamente a disposizione di tutte le imprese (visto che i diritti camerali sono di fatto delle tasse il cui pagamento è obbligatorio), a differenza delle associazioni, che per definizione rappresentano una parte del tutto. In conclusione, un tema di carattere “politico”, visto che la Camera di Commercio di Rimini sta per rinnovare i propri organi dirigenti, dopo il ventennio del Presidente Maggioli. Come riminese ricordo bene il clima positivo che nei primi anni Novanta si respirava in questo lembo di Romagna quando venne istituita la Camera di Commercio: si trattava di un segno distintivo per un territorio che finalmente poteva dotarsi di un organismo di autogoverno sul piano economico, quindi una effettiva crescita istituzionale per la città. Non è certo mia intenzione riassumere in poche righe una storia importante di un pezzo della nostra comunità : innumerevoli sono state le iniziative interessanti ed utili per le imprese, come ricerche e seminari, missioni imprenditoriali all’estero e partecipazioni fieristiche. Eppure, per giungere al cuore del tema, cioè la “mission”, viene da pensare come tante ingenti risorse economiche siano state investite dalla Camera di Commercio di Rimini in partecipazioni azionari in strutture come la Fiera, i due Palazzi dei Congressi di Rimini e Riccione, il Centro Agro-alimentare, infine l’Aeroporto. Si tratta di infrastrutture importanti e pure molto costose, le cui performance non proprio brillanti stanno appesantendo il nostro sistema economico locale in modo assai preoccupante. Ebbene, il mio pensiero è che la Camera di Commercio non possa essere il bancomat degli enti locali, cioè in fin dei conti della politica, perché è finanziata dalle imprese, mentre la politica locale non si è particolarmente distinta per capacità di innovazione e rilancio del nostro territorio, tutt’altro ! 
 Alessandro Rapone