martedì 31 gennaio 2023

La regola che non c'è

La regola che la Juve avrebbe violato non c’è (e non c’è nemmeno la sanzione comminata). I giudici sportivi hanno ritenuto che il materiale della procura di Torino abbia dimostrato nefandezze tali da rendere superflua pure la configurazione di un reato apposito. Il “libro nero di Fabio Paratici” è la novità che balzando fuori dalle carte di Torino ha determinato la pesante sanzione a carico della Juventus sul piano sportivo. Si tratta di una serie di appunti che, a dire della Corte federale della Federcalcio che ha accolto la richiesta di revocazione promossa dal procuratore federale Giuseppe Chinè, dimostrerebbero inconfutabilmente un’illecita pratica di alterazione del valore dei giocatori. Leggo la sentenza della Corte di Appello, nientemeno a Sezioni Unite, col medesimo presidente che qualche mese va aveva assolto il club per gli stessi fatti: non pratico il diritto sportivo se non per i risvolti domenicali, mi basta quello ordinario e con i miei occhi profani leggo le motivazioni. La questione è semplice: il Codice di giustizia sportiva può essere un libro nero o bianco di norme che possono valere per un ambito ristretto di appassionati, più o meno come le regole di un circolo di distinti gentiluomini. Se invece si ha la pretesa di definire il mondo dello sport “anche” come un ordinamento giuridico allora devono valere i principi che all’inizio del secolo scorso l’illustre giurista Santi Romano delineò nelle sue opere: possono esistere distinte realtà giuridiche, ognuna con le sue istituzioni e le sue norme, ma nessuna, per essere riconosciuta, può violare i principi fondamentali dello Stato e le norme di ordine pubblico (chiedo venia per l’eccesso di semplificazione). La sentenza che ha condannato la Juventus in un colpo solo, ne viola alcuni a partire da quello di legalità: in un precedente articolo questo giornale aveva evidenziato che la medesima Corte ed il medesimo presidente avevano scritto che le prassi dei responsabili juventini erano scorrette e contrarie alle regole contabili, ma purtroppo non sanzionabili in quanto manca una norma esplicita in sede sportiva. Sul punto hanno di recente convenuto sia il ministro dello sport Andrea Abodi che il presidente della Lega Serie A, Lorenzo Casini, promettendo di varare la normativa. Legittimo chiedersi come mai allora la Corte abbia condannato senza un reato: non è facile capirlo. I giudici hanno ritenuto che “il libro nero di Paratici”, al pari di quello del comunismo per la politica, abbia spalancato la vista su un universo di nefandezze e violazione di principi sportivi. Comprensibile lo sdegno ma un ordinamento di diritto prevede che qualsiasi cittadino anche il peggiore, come poniamo sia un Fabio Paratici, sappia a cosa va incontro prima di porre in essere una determinata condotta che lo Stato decida di reprimere. L’unica eccezione sul punto fu fatta dagli Alleati a Norimberga contro i gerarchi nazisti cui fu contestato il reato di “crimini contro l’umanità” non contemplato da alcun codice sul presupposto che l’enormità e l’orrore dei loro atti fosse talmente evidente da violare la legge morale che ogni uomo si porta dentro. Orbene, e con il dovuto senso di misura, non così dissimile da tale principio ( denominato “regola di Radbruch”, dal nome del giurista tedesco che lo teorizzò) è stato il ragionamento seguito dai giudici sportivi. Essi hanno ritenuto che il materiale riversato loro dalla procura di Torino abbia dimostrato l’abissale nefandezza e consapevolezza dell’illiceità delle loro azioni da rendere superflua pure la configurazione di un reato apposito. Forse è eccessivo. Non solo ma nelle condotte che hanno determinato la sanzione finale la Corte fa confluire anche una trattativa, quella tra Arthur e Pijanic col Barcellona, mai contestata dalla procura ma che sicuramente verrà buona per l’Uefa per sanzionare i due club, guarda caso tra i patrocinatori della detestata Superlega. Anche qui il diritto cigola. L’impressione è che nell’ansia di adeguare il processo sportivo alle risultanze dell’inchiesta, e di procedere celermente, si siano sacrificati equità e diritto. La sanzione di quindici punti è stata comminata alla Juve per la contestazione dell’art. 4 comma 1 del codice sportivo che stabilisce tuttavia una regola di ordine generale, l’osservanza dei «principi di lealtà, correttezza e probità». Non è invece contestato il comma 2, che espressamente prevede la sanzione della penalizzazione, mentre invece l’accusa comprendeva anche l’art. 31 comma 1. Questa è una norma specifica che sanziona «l’alterazione, la falsificazione anche parziale dei documenti richiesti dagli organi di giustizia sportiva», tuttavia prevede come pena solo un’ammenda perché considera tale condotta un illecito amministrativo. Questa avrebbe dovuto essere la pena. Presumibilmente la procura sportiva dopo aver ricevuto gli atti giudiziari da Torino si è accorta di una contestazione insufficiente: avrebbe voluto contestare il comma 2 dell’art 31 che sanziona con la penalizzazione i falsi per eludere le norme sull’iscrizione alle competizioni sportive e non potendo aprire un nuovo procedimento per gli stessi fatti è ricorsa alla revocazione, diciamo, forzando i termini della questione. Che la procedura sia tutt’altro che perfetta lo dimostra il ribadito proscioglimento degli altri club pur «concorrenti necessari» della Juventus perché alla Corte deve essere sembrato eccessivo condannare senza neanche le intercettazioni. Eppure sia consentito: se le violazioni e i falsi erano così smaccati come è possibile che non se ne accorgessero i contraenti? Ribadisco: sono queste osservazioni che qualcuno può legittimamente ritenere non adeguate all’ordinamento sportivo ma può una realtà complessa come la football industry fare a meno del diritto? E si può sacrificare tutto alla velocità e alla regola dello spettacolo che deve andare avanti comunque? Può il principio di autonomia di un ordinamento sfiorare l’arbitrio? Se non si vuole attendere gli esiti della giustizia ordinaria non sarebbe più logico rinforzare gli organismi giudiziari sportivi? Consentire vere e autonome indagini alla procura, ma soprattutto allargando i dibattimenti a una vera attività processuale, col contraddittorio effettivo sulle prove? Insomma creare un vero “processo sportivo” simile a quello ordinario e soprattutto pubblico? Servirebbe anche ad avere fiducia nelle istituzioni sportive, e ce ne sarebbe bisogno. 
Cataldo Intrieri
Avv. Prof. Milanista.