lunedì 4 agosto 2014
Il Cancelliere: Epitafio (parte prima: la città)
Oggi ci si meraviglia della “capitale”.
Non di quanto gli antichi abitanti hanno potuto costruire ma di quanto i loro indegni eredi hanno saputo distruggere. Le antiche rovine sbigottiscono per la loro imponenza, eppure voi sentirete i cittadini superstiti parlare spesso di ricostruzione o “ristrutturazione”.
La “capitale” mostra i segni della pur recente e insieme antica sua storia soprattutto nei suoi abitanti: è una città di liberti, di clienti e di mediatori decaduti che trascinano carrette o guidano taxi conservando della tramontata ricchezza una rispettabile puzza sotto al naso. E’ raro incontrarvi un uomo libero, capace di ingenuità, di grandi entusiasmi, di profonde indignazioni. Predomina nei cuori l’aridità, benché tutti a parole siano generosi, nei cervelli la sufficienza, l’ironia greve sorregge gli spiriti. Il cittadino non perde occasione per rendersi felice e agevolare, dietro compenso, la felicità altrui. Famosa resta la frase del loro più grande concittadino, costruttore di mausolei per turisti (e loro simili chiamati “congressisti”), che affermò: “…come ci si indebita bene, coi soldi degli altri, in questa città!..”. Rimasero infatti debiti per centinaia di milioni di Euro.
Potevi e puoi vivere qui tutta la vita senza conoscere il tuo vicino e senza salutarlo se lo incontri per le scale. Non esisti per lui, anzi, non ti vede. Ciò si spiega con la diffidenza che il cittadino ha per i suoi simili che non è obbligato a conoscere: difesa necessaria, credo, contro i ladri, i delatori e i sicofanti che qui abbondano, forse favoriti dal cielo, certamente dalle autorità e dalle leggi.
E’ anche sorprendente, ancor oggi, il numero di persone che vivono senza lavorare o lavorando contro il prossimo. Alla locale scuola musicale ogni anno vengono respinte centinaia di domande: sono giovani che vorrebbero essere ammessi al corso di triangolo, il più facile degli strumenti, ma pure necessario, una volta ogni tanto, in un’orchestra. Ho sentito un giovane che aveva guadagnato molti soldi (preferisco non dir come), affermare:” Me li mangerò, me li vestirò, me li c…”.
Credo che qui l’abito sia indispensabile per fare il monaco.
Gli invertiti abbondano. Sono, dopo quelli della capitale dell’ex Stato, i più famosi del mondo, hanno circoli o la migliore organizzazione, ottennero e hanno ottenuto che il governo si interessi della loro attività, che richiama turisti e favorisce il bilancio. Gli invertiti si tramandano il mestiere da padre in figlio, come in certe contrade del nord ci si tramanda la scultura in legno, senza convinzione, ma per abitudine e per ammazzare il tempo. Superata una certa età, tutti diventano però mariti infedeli delle loro mogli e ancor oggi li trovi con i trans, quelli rimasti, presso le rovine di un centro commerciale nella prima periferia della “capitale”.
Ci si chiede. Dove sono andati a finire i nipoti dei fondatori di questa “capitale” in riva al mare?
Parliamo dei vecchi aderenti alle sue, ora defunte, chiese (cattolica e comunista) che un secolo scarso fa sul mare fondarono la “capitale” dopo 2000 anni di oblio?
Diamine! Sono ancora nella “capitale”! Ma hanno abbandonato la religione degli antenati e sono tornati pagani, cioè nemici del loro prossimo come di se stessi. A chi ti colpisce la guancia destra non offrire perciò la guancia sinistra: lo renderesti troppo felice. Ti racconteranno storielle sul carattere del cittadino: indolenza, tolleranza, magnanimità, furberia. Sono tutte vere, lo proverai a tue spese.
Credi di avere un amico, ti accorgi dopo dieci anni di avere soltanto un compagno di tavola e di conversazione. E questi limiti, alla fin fine ti piaceranno, ti corazzerai in un egoismo forse inutile ma confortante per il tuo orgoglio. Penso che la capitale non sia né carne né pesce, ma il più curioso pasticcio del mondo. Manca la solidarietà, calore del nord, e la irresponsabilità, calore del sud. Ma, per il resto, c’è tutto.
E’ una grande città mancata? Mah! Forse è solo l’unica città al mondo con abitanti privi di qualità civiche. Non esiste il senso della proprietà collettiva, la proprietà è universale, affidata piuttosto alla Provvidenza. Tutti se ne lavano le mani e se ne prendono, anzi prendevano, un pezzo. Quelli che potevano, ovviamente.
Il ciclo della vita era ed è ancora settimanale: forse è questo il segreto della sua saggezza. Nessuno fa programmi oltre la domenica, giorno in cui tutti si danno al divertimento e, oggi, al bere, come se il mondo dovesse finire l’indomani. Oltre la domenica c’è il Nulla, il tempo perde ogni significato. Questo costume si deve allo spavento che anche qui provarono nell’anno Mille, quando la fine del mondo fu data per certa dai profeti. Da allora il cittadino della “capitale” si tiene pronto: e se la fine del mondo avverrà di lunedì, morirà soddisfatto e senza sorprendersi.
Invano puoi provare di vivere col “popolo”, innanzitutto non esiste, e poi ne sarai ben presto stanco e schifato. Popolo godereccio, insolente. Di un’intelligenza sorniona, pesante, clericale, abitudinaria. Tira al sodo e ha l’oracolo in bocca. Fraintende la tua simpatia, si fa sospettoso, infine decide di approfittare. Ti accorgi che è domenica dalle chiazze di vomito sui marciapiedi e dalla puzza di orina sui muri.
Le donne, inaridite dai lunghi decenni di prestazioni mercenarie. Meretrici senza fantasia. D’aspetto sensuale, ma con membra pesanti, giunture grosse, grandi facce truccate di una bellezza prepotente ed effimera. Hanno il conto corrente col Peccato e col “Centro Fitness” e si pentono sempre in tempo. Arricciano il naso se tu, forestiero, le guardi. Ti pelano, se le accosti, a meno che tu non ti decida a pelar loro, il che è ugualmente facile. Non vogliono quasi mai un amante, ma un padrone o un servo. Oppure stabiliscono patti così chiari che alla fine ti domandi che cos’altro resta da fare.
Vivono qui ancora nonostante la crisi migliaia di forestieri in un tetro isolamento. Non conoscono nemmeno tutta la città, lasciano malvolentieri le loro strade. Alcuni non hanno disfatto le valigie, sempre sperando di andarsene. Ma come, se nessuno li trattiene e nessuno li vuole?
Il guaio era questo: nella “capitale” un bel giorno mettevi su famiglia, lavoravi (?), frequentavi un ambiente, guadagnavi tanto di che vivere: sei diventato anche tu della “capitale”. Se te ne accorgi proverai due sentimenti opposti: il primo di insofferenza, l’altro di estrema soddisfazione. Il resto del mondo ti apparirà inutile.
Se però lasci la “capitale”, tornando devi ricominciare daccapo. Non troverai traccia di ciò che hai fatto. So di persone (poche) che, allontanatesi per sempre, ci tornarono pentite, dopo anni, e trovarono gli amici al caffè che non s’erano accorti di niente. Ad un tale, ch’era stato dieci anni in Cina, dissero:” Hai cambiato pub?”.
“La capitale” ancor oggi è infestata da antiquari, cioè da “scrittori” di antichità (locale). Decidono, sempre sbagliando, su questioni di arte e di archeologia, economia. Praticamente su tutto. Pochi hanno letto un libro, pochissimi più di uno. La cultura da queste parti è molto, molto sospetta. Giustamente.
Gli antiquari collezionano quadri falsi, frequentano i pochi ristoranti rimasti, posano a gran mangiatori, e intenditori di vini, raccontano aneddoti. Un poeta disse di costoro:” Credono di arrivare alla posterità in carrozza”. E quando un antiquario muore, tra le sue carte si trovano invariabilmente sonetti, poemi romanzi e carte varie di nessun valore. E’ difficile peraltro non diventare antiquari perché la mania di grandezza qui è dappertutto. E’ una grandezza bonaria, in pantofole, ma schiaccia. Mai sentirai la commozione prenderti alla gola davanti ad un mausoleo turistico in rovina o ad un aspetto della città. Anche le rovine ti ammoniscono a star calmo.
La palla da dieci tonnellate di granito del mausoleo dei congressi, ad esempio, ti annichilisce.
Il sentimento non lega con queste pietre e questo vetrocemento, a meno che tu non lo mischi di letteratura e di storia: disgustose posizioni, quando cerchi la vita. L’architettura è un ritornello ossessionante, uno sforzo sempre titanico, ma oratorio, fatto per ottenere il consenso popolare. Nessuna meraviglia se i palazzi, pur rovinati, ti appariranno umani, così somiglianti a chi li abitava e a quelli che restano. Si direbbero, costoro, della stessa impassibile materia, della stessa pietra che il sole e l’acqua anneriscono e indorano e che il tempo offende così sbadatamente.
Si viveva in questa città che sembrava troppo bella, amandola, maledicendola, proponendosi ogni giorno di lasciarla e restandoci. L’indifferenza delle sue strade, delle sue donne, delle sue piccole mura e del suo mare faceva, fa perdere allo straniero ogni fede in se stesso.
Questo era la “capitale”.
(Fine prima parte)