lunedì 13 marzo 2017

Provocazione

Mi sono ributtato lascivamente a leggere monografie di professori di diritto romano, non solo per dimostrare ritrosia avverso concetti riassunti da quel termine assurdo che va sotto la claudicante denominazione di “rottamazione” che, spacciata un tanto al grammo, confonde il parterre dei disattenti potenziali elettori, ma per uscire dal tedio della routine giornaliera e dalla noia della politica delle slide, così tanto fumosa ed esilarante da mietere effetti psicotropi rilevanti persino in capo agli astanti protagonisti. Si traggono sempre lezioni importanti dalle esperienze del passato, quando a Roma i cittadini erano chiamati quiriti e nemmeno l’imperatore piromane nella sua vezzosità riuscii a ridurla un cumulo di macerie quanto ora. Non tanto, si badi, materiali, piuttosto ideali, valoriali, spirituali. The first great empire dove si parlava latino e Roma era caput mundi, la meraviglia, dove coesistevano stirpi, razze in un melting pot da fare invidia al calderone dove la nonna cucinava e rimestava la polenta. Le parole d’ordine erano conquistare, assoggettare, sottomettere, prendere nel doppio significato veltroniano, cioè nell’accezione di egemonizzare, ma anche in quello di assimilare, assorbire, rispettare i particolarismi e le consuetudini dei territori e delle gentes vinte. Vi era paradossalmente grande tolleranza per usi e costumi, religiosa, per le consuetudini, che il diritto romano non intaccava; semplicemente nella gerarchia delle fonti si poneva all’apice. Del resto la forza autoritaria delle legioni era il gladio della legge. Un po’ come le armate di Napoleone in piccolo hanno divulgato le idee a fondamento della Rivoluzione Francese, le legioni hanno esportato manu militari il diritto di Roma nel mondo. La superiorità di Roma era questa …anche Gesù pagò per certi versi questa strana tolleranza e questi apparenti equilibri nei poteri: i mandanti di quell’assassinio erano autoctoni, Ponzio Pilato pare usò solo il sapone. Poi con la leva della cittadinanza alle volte si risolvevano e disinnescavano tante criticità. Ragionavano in grande i romani; quanti imperatori “stranieri”, nemmeno di origine italica eppure assurgevano al vertice dell’amministrazione. Quella immensità teritoriale, quel crogiuolo di razze e stirpi si univano nel tributo ideolatra e fideistico della grandezza di Roma: Roma first! Le banalità delle diversità insormontabili delle persone e dei popoli si scontrano sui dati che la storia ci consegna. Sono sempre esistite etnie, tribù, popoli. Sono sempre stati mobili, si spostavano anche in ragione delle esigenze demografiche, non solo si stanziavano, e se Roma cadde non fu solo ed esclusivamente per i fenomeni migratori, ma per l’immensa corruzione che permeava l’amministrazione e l’impreparazione sempre più intensa che caratterizzava le sue élite logorate. E questa la riflessione finale che non vuole essere una provocazione, ma solo una intuizione: …e forse perché si era fatta strada una nuova cultura rivoluzionaria che non vedeva più in una città la ragione ideale per morire, ma nel monoteismo di una sola figura divina la rivelazione di quel concetto di verità assoluta ed esclusiva, tanto da indirizzare ogni azione vitale per il più immenso dei premi: la vita dopo la morte e sedere nuovamente alla destra del padre, in vece della mera grandezza di una città?? 
Roberto Urbinati